Sabato 18 aprile 2020 abbiamo iniziato un training mentale a cadenza settimanale in diretta facebook dal titolo Il respiro della felicità: un percorso basato sulla Mindfulness e volto a coltivare in noi la felicità. Ci troveremo in diretta facebook ogni sabato sera alle 21.00, almeno fino alla fine della “quarantena” per emergenze Coronavirus.
Ho aperto la prima diretta affermando che la felicità non fa parte del “carattere” (non è una “dotazione” che alcuni fortunati hanno fin dalla nascita e altri no) ma è uno “stato” che emerge da un “tratto”. Questo significa, da una parte, che chiunque può essere felice, dall’altra che la felicità può diventare una condizione stabile della personalità (tratto).
Parlo di felicità e non di gioia. Distinguo le due seguendo la tradizione buddhista che vede nella seconda il soddisfacimento di un bisogno contingente, mentre nella prima uno stato permanente e duraturo dell’essere. Usando la metafora del mare, potremmo intendere la gioia come lo specchio dell’acqua che a volte è calmo, a volte mosso, altre volte burrascoso: a volte proviamo gioia, altre volte tristezza, a volte rabbia, altre volta pace, ecc. Ma, se scendiamo in profondità negli abissi del mare, lì le correnti sono sempre stabili, indipendentemente da ciò che avviene in superficie: questa è la felicità.
Occorre allenarsi attraverso la meditazione. La meditazione, infatti, è un allenamento mentale atto a produrre modificazioni neurali in ordine ad una sempre maggiore felicità.
Attraverso la focalizzazione dell’attenzione su un unico oggetto della meditazione (il respiro, il corpo, le sensazioni fisiche, le emozioni, i pensieri, ecc.). Scrive Daniel Goleman nel libro La meditazione come cura: “Un insegnamento fondamentale impartito in quasi tutte le forme di meditazione è quello di notare quando la nostra mente comincia a vagare e ritornare quindi alla nostra concentrazione sull’oggetto scelto (per esempio, un mantra o il nostro respiro).” E poi spiega: “Questa semplice mossa della mente ha un suo correlato neurale: l’attivazione della connessione tra la PFC dorsolaterale e la rete della modalità di default. Quanto più questa connessione è forte, tanto più è probabile che i circuiti di regolazione nella corteccia prefrontale inibiscano le aree di default, calmando il fenomeno della «mente scimmia» (l’incessante chiacchiericcio mentale, incentrato sull’io).”
Lo psichiatra Daniel Siegel, nel libro Diventare consapevoli, scrive: “A partire dal centro del lobo frontale si estendono, lungo l’asse sagittale, le aree interconnesse che formano i nodi mediali della rete della modalità di default (…) Una delle componenti fondamentali di questa rete mediale è un’area chiamata corteccia cingolata posteriore. La corteccia cingolata posteriore può essere considerata, a livello anatomico e funzionale, un nodo di coordinamento della rete di default. Collaboratrice stretta della corteccia cingolata posteriore è un’area mediale frontale denominata corteccia prefrontale mediale ventrale, la quale svolge un ruolo fondamentale nella cognizione sociale e nella teoria della mente, ossia nella capacità di pensare alla mente delle altre persone e di se stessi. Quando la corteccia cingolata posteriore si attiva insieme ad altre aree dei circuiti della modalità di default, abbiamo tendenzialmente l’esperienza soggettiva di pensare a noi stessi, oppure di pensare a ciò che gli altri pensano di noi (…) La rete della modalità di default può favorire la consapevolezza della nostra vita mentale interiore e l’attenzione agli stati mentali degli altri.” La rete della modalità di default è, dunque, quel circuito neurale che fa emergere in noi il senso dell’io/mio/me.
Jon Kabat-Zinn, ideatore della Mindfulness, nel libro Dovunque tu vada ci sei già, scrive: “«Io», «me» e «mio» sono prodotti del nostro pensiero” E subito dopo spiega: “Quasi in ogni momento o esperienza la nostra mente pensante costruisce il «mio» momento, la «mia» esperienza, il «mio» bambino, la «mia» fame, il «mio» desiderio, la «mia» opinione, il «mio» modo, la «mia» autorità, il «mio» futuro, la «mia» conoscenza, il «mio» corpo, la «mia» mente, la «mia» casa, il «mio» paese, la «mia» idea, i «miei» sentimenti, la «mia» macchina, il «mio» problema. Osservando questo processo con attenzione e spirito d’indagine costanti vedrete che ciò che chiamiamo «il sé» è in verità una costruzione della nostra mente e nemmeno permanente. Se ricercate in profondità un’essenza individuale stabile e indivisibile, quel «voi» che sottostà alla «vostra» esperienza, non è probabile che la troviate se non in ulteriori pensieri. Potreste dire di essere il vostro nome, ma non sarebbe esatto; il nome non è che un’etichetta. Altrettanto vale per l’età, il genere, le opinioni e così via. Nulla di tutto ciò è fondamentale ai fini della vostra identità. Quando indagate in questo modo seguendo il più profondamente possibile il filo conduttore che porta a chi o cosa voi siete, vi è la quasi certezza di trovare che non esiste un terreno solido su cui procedere. Se vi chiedete: «Chi è quell’io che chiede chi sono io?», alla fine non rimane che dire: «Non so». «Io» si presenta come una mera convenzione”.
Partendo dalla costatazione che, quando quest’area si attiva – come scrive Goleman nel libro sopracitato – “la nostra mente vaga perlopiù intorno a cose che riguardano noi stessi e tutte le minuzie della storia della nostra vita: i miei pensieri, le mie emozioni, le mie relazioni, a chi è piaciuto il mio nuovo post su Facebook” alcuni ricercatori di Harvard hanno testato migliaia di persone per verificare cosa se vi era una correlazione tra l’attivazione dell’area di default della mente e un particolare umore nelle persone. E, scrive Goleman: “i ricercatori … sono giunti alla conclusione che «una mente vagante è una mente infelice».”
Questo non significa che l’area di default sia qualcosa di sbagliato e debba essere disattivata. In questo caso non se ne comprenderebbe l’esistenza e la conservazione a livello evolutivo. Probabilmente ciò che è disfunzionale è l’isolamento dell’area di default e la conseguente perdita di integrazione col resto del cervello. Scrive Daniel Siegel, nel testo sopra riportato: “Quando la rete di default non è integrata con il resto del cervello e del corpo, la sua capacità di focalizzarsi sugli stati mentali potrebbe dare origine alla costruzione di un senso del Sé solitario… portando talvolta alla definizione di un Sé isolato, ossessionato dal proprio status (…) Possiamo immaginare che questa ossessione per il Sé abbia origine da una rete di default eccessivamente interconnessa all’interno dei propri circuiti, senza un collegamento con i sistemi neurali più estesi presenti nel cervello e nel corpo nel suo complesso, e neppure con i flussi provenienti dagli altri e dal mondo più ampio in cui viviamo.” E questa eccessiva interconnessione interna dell’area di default porta come conseguenza una ipertrofia dell’io, una eccessiva preoccupazione rispetto a ciò che gli altri pensano di noi che ingenera ansia, isolamento, esclusione sociale, malessere, fino a manie persecutorie e alla depressione.
Molte tradizioni spirituali parlano di annullamento dell’ego, svuotamento dell’io, uscire da se stessi, fare vuoto. Scrive Goleman: “Le tradizioni meditative di ogni tipo condividono un obiettivo: allentare quella continua presa – l’«adesività» dei nostri pensieri, delle emozioni e degli impulsi – che ci guida nelle nostre giornate e nelle nostre intere vite. Questa intuizione chiave, che in termini tecnici è chiamata «dereificazione», porta il meditatore a comprendere che pensieri, sentimenti e impulsi sono eventi mentali transitori, privi di sostanza. Forti di questa intuizione, non siamo costretti a credere ai nostri pensieri: invece di seguirli per un po’ nel loro corso, possiamo lasciarli andare.”
Un’interessante scoperta ha evidenziato come i circuiti lateralizzati – che comprendono l’insula anteriore, che media la percezione dello stato del corpo – inibiscono la rete di default. Scrive Siegel: “Le sensazioni provenienti dalle regioni laterali e il chiacchiericcio mentale delle regioni mediali si inibiscono a vicenda. Persi nei pensieri, si attenuano le sensazioni. Nel flusso delle sensazioni, si placano i pensieri (…) È sufficiente “stare” con le sensazioni per placare la preoccupazione per se stessi. Si tratta di una scoperta di straordinaria utilità proveniente da una rigorosa attività di ricerca, capace di chiarire un proficuo meccanismo mentale.”
Ecco spiegato il motivo per cui il primo tutti i tipi di meditazione spostano la nostra attenzione dalla mente al corpo (attraverso il respiro, il body scan, la danza, i movimenti consapevoli, ecc.). Più sto con le sensazioni fisiche più aumento e ispessisco le connessioni dei circuiti lateralizzati che, quindi, interconnettono l’area di default col resto del cervello generando maggiore integrazione e conseguente benessere psicofisico e felicità.
In queste dirette facebook ci alleneremo di volta in volta proprio a questo. Porteremo l’attenzione alle sensazioni fisiche con diverse tecniche meditative, sviluppando le connessioni interne del nostro cervello così che, sabato dopo sabato, si crei un tratto e ne emerga uno stato di sempre maggiore felicità.
Vi aspetto ogni sabato alle 21.00 sul mio profilo facebook: https://www.facebook.com/mario.bonfanti.9
Mario Bonfanti
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